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Uno studio, del gruppo belga di Aalst, ha dimostrato una discordanza di circa il 30% tra la valutazione angiografica e quella funzionale con FFR, in 4000 stenosi coronariche, giudicate angiograficamente critiche. Confermando che la criticità di una stenosi coronarica cronica dipende dalla quantità di miocardio vitale a valle e dalle resistenze del micro circolo, piuttosto che dalla sola entità della riduzione del lume.
Ad esempio una stenosi valutata 70% in un tratto medio-distale di un ramo coronarico principale, può essere emodinamicamente non rilevante, mentre una stenosi inferiore al 50% sul tronco comune può produrre ischemia in un vasto territorio a valle.
Inoltre, in condizioni di stabilità clinica, anche il riscontro di una ridotta riserva coronarica, con la dimostrazione di ischemia miocardica inducibile, non esclude una prognosi favorevole e non comporta necessariamente una maggiore efficacia di un intervento di rivascolarizzazione, rispetto al trattamento medico ottimale.
Il risultato di una recentissima analisi di sottogruppo dello studio Courage, ha individuato, come predittivo di futuri eventi coronarici, il carico ateromasico complessivo, ma non il carico ischemico.
Il significato prognostico dell’ischemia inducibile, finora ampiamente utilizzato, è ora diventato piuttosto controverso.
In base alle conoscenze fisiopatologiche accumulate, sappiamo che la previsione di futuri eventi negativi, non è tanto dovuta ad una stenosi critica del lume coronarico, anche se ischemizzante, quanto piuttosto all’evoluzione sfavorevole di formazioni ateromasiche non ostruttive, prevalentemente situate nello spessore della parete vascolare: le cosiddette placche vulnerabili , non identificabili con la coronarografia, ma caratterizzabili con la virtual histology, purtroppo finora non sufficientemente validata e quindi ancora in fase sperimentale.
Questi aspetti controversi sono oggetto di un mega trial internazionale, attualmente in corso: “Ischemia” ( vedi slideset della presentazione ufficiale )
Il trial prevede due trattamenti differenti, medico ed interventistico, in oltre 8000 pazienti con coronaropatia stabile, seguiti per 4 anni. Lo studio è stato finanziato con 84 milioni di dollari, nel 2011, dal famoso istituto governativo statunitense NIH, uno dei maggiori centri di ricerca medica a livello mondiale. In Italia partecipano al trial oltre una decina di centri.
I risultati sono attesi non prima del 2019. Nel frattempo, nella pratica comune una parte degli interventi coronarici elettivi continua a basarsi prevalentemente sul semplice riscontro angiografico di una riduzione del lume coronarico, anche a prescindere dal contesto clinico, fisiopatologico e prognostico: rivascolarizzazione su base anatomica.
L’aterosclerosi coronarica ha un ampia diffusione; è caratterizzata da una lenta evoluzione, asintomatica per i primi decenni di vita, si può manifestare clinicamente nelle età successive, sia nella forma cronica sia in quella acuta.
La forma cronica, caratterizzata dalla presenza di un fibro ateroma ostruttivo in un vaso epicardico, è relativamente benigna, a differenza di quella trombotica, una complicazione che caratterizza la sindrome coronarica acuta nelle sue pericolose espressioni, infarto e angina instabile. Il significato prognostico delle due forme è quindi molto diverso: basso rischio per le forme stabili ostruttive, alto rischio per quelle complicate da trombosi.
L’ampia disponibilità di tecnologie diagnostiche, ha incentivato, anche nel campo coronarico, un eccesso di diagnosi e un conseguente eccesso di trattamenti non necessari nelle forme a basso rischio: paradigma illustrato sempre da E. Topol, già nel 1988, con un altro concetto diventato famoso: il “riflesso oculo-stenotico”, cioè la propensione al trattamento di una stenosi sulla base di una valutazione “ad occhio” della criticità angiografica.
L’entità di questo problema, definito appropriatezza, è stata evidenziata negli USA con una campagna informativa denominata ” Choosing Wisely“, ma è ancora ampiamente sottovalutata nei paesi europei, compreso il nostro, dove l’iniziativa analoga, promossa dall’associazione “Slow Medicine“, stenta ad avere una adeguata visibilità.
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